Trattamento psicologico della psoriasi: due terapie d’elezione

9 novembre 2016 Psicosomatica 0 Comments

E’ ormai dimostrato e riconosciuto scientificamente che i fattori psicologici esercitano un ruolo importante nel determinare l’inizio, il mantenimento e l’esacerbazione di una grandissima varietà di patologie cutanee (Kimyai-Asadi & Usman, 2001; Griffiths & Richards, 2001). Nel caso della psoriasi, gli aspetti debilitanti e di cronicità di questa malattia rendono lo stress un “ingrediente” quasi sempre presente, che si ripercuote ferocemente sulla qualità della vita del paziente (O’Leary et al., 2004), sull’aggravarsi della malattia (Zachariae et al., 2004; Picardi & Abeni, 2001) sino ad arrivare ad incidere sull’efficacia del trattamento dermatologico in atto (Fortune et al., 2003). Stress e psoriasi però procedono a braccetto non solo negli aspetti di mantenimento della malattia, ma anche in molti di quei casi in cui l’inizio della malattia viene fatto risalire a poco dopo un evento stressante (O’Leary et al., 2004; Zachariae et al., 2004; Fortune et al., 1998, 2005). Così oggi medici e dermatologi, nonché una grossa mole di ricerca clinica, sempre più si orientano verso un approccio biopsicosociale che si faccia carico del paziente globalmente, dove il corpo cioè non sia svincolato dalla sua psiche (sistema nervoso) e quindi dal suo contesto sociale (ambiente). In molti casi intervenire sulla psoriasi in termini esclusivamente dermatologici sarebbe un po’ come occuparsi solo del sintomo senza ragionare su tutte le possibili concause.

Anche nell’ambito dell’intervento psicologico, come in quello dermatologico, sono stati esplorati gli effetti di varie tecniche di trattamento che vanno dalla psicoterapia psicodinamica alle tecniche di abbassamento dell’arousal nervoso, come il biofeedback e l’ipnosi. In particolare però hanno mostrato avere particolari effetti benefici due tipi di trattamento, ovvero la psicoterapia cognitivo comportamentale (TCC) e la Mindfulness.

La TCC è una psicoterapia sviluppata negli anni ’60 da A.T. Beck e oggi è adottata nella pratica clinica da buona parte degli psicoterapeuti in Europa e nel mondo. E’ infatti la terapia che vanta la maggior conferma scientifica nel panorama nazionale ed internazionale. Il principio alla base è che non è la realtà a determinare direttamente ciò che le persone provano, ma piuttosto il modo in cui le persone ‘interpretano’ la realtà. Così, una situazione che può essere fonte di preoccupazione, ansia e stress per qualcuno per qualcun altro non lo è e il modo in cui noi interpretiamo la realtà è il risultato di credenze, schemi mentali e organizzazioni emotive che costituiscono la nostra personalità attuale ma che si sono sviluppati tipicamente durante l’infanzia. Il terapeuta cognitivo-comportamentale lavora insieme al paziente, in uno stretto legame di collaborazione e fiducia, per far affiorare alla coscienza e alla capacità critica queste organizzazioni mentali ed emotive, il modo in cui sono legate tra di loro e il meccanismo sottostante che le mantiene. Presa di coscienza ed elaborazione di immagini, pensieri ed emozioni anche di difficile accesso favorisce una riorganizzazione interna e conseguentemente anche un allentamento di tensioni e stress.

Facciamo un esempio. Una caratteristica psicologica tipicamente riportata nella clinica della psoriasi è l’alessitimia (dal greco ‘alexis’, assenza di parole, e ‘thymos’, emozione), che viene definita in letteratura come una difficoltà ad identificare (e/o descrivere) le emozioni e a distinguere le emozioni dalle sensazioni corporee (Taylor et al., 1997). La prima definizione viene data nel 1970 da Nemiah e Sifneos che osservarono in pazienti con disturbi psicosomatici classici una forte difficoltà ad esprimere verbalmente le proprie emozioni ed una carenza di fantasia. In seguito è stato poi aggiunto uno stile cognitivo e un pensiero molto orientati verso l’esterno, sul dato concreto (Willemnsen at al., 2008). Tra i fattori eziologici, numerose ricerche hanno collegato l’alessitimia a esperienze traumatiche precoci o alla formazione di un attaccamento insicuro con i caregiver (Kooiman et al., 2004; Picardi et al. 2003). Per esempio, Picardi et al. (2005) hanno trovato una forte associazione tra evitamento dell’attaccamento e esacerbazione delle placche psoriasiche. Questo stile di attaccamento è caratterizzato dal fatto che i pazienti evitano di cercare supporto nell’altro.

Un quadro clinico di questo tipo costituisce un terreno di indagine e di intervento terapeutico piuttosto fertile per la TCC, in cui terapeuta e paziente possono insieme immaginare, sentire e ricostruire tutti quegli stati interni emotivi di difficile accesso per il paziente, partendo da sensazioni semplici, fisiologiche (‘come ti senti quando fuori è caldo torrido e fai una doccia gelata’), fino ad arrivare a situazioni emotive più complesse, come per esempio le emozioni condivise in contesti sociali (‘secondo te l’altro come pensa che tu ti senta’). Uno studio sperimentale di Fortune e colleghi (2002) ha dimostrato come l’associazione di TCC alla terapia dermatologica standard abbia permesso miglioramenti significativamente maggiori, sia per la gravità della psoriasi che per la disabilità e lo stress associati, rispetto alla sola terapia dermatologica.

L’ideatore della Mindfulness è Jon Kabat-Zinn che dagli anni ’70 ha messo in pratica e perfezionato questo protocollo nel Medical Center dell’università del Massachusetts su oltre 13.000 pazienti con patologie diverse, anche croniche o allo stadio terminale. Attingendo alle pratiche dello yoga, del buddismo e della meditazione Zen e riadattandole alle nostre conoscenze della mente umana, la Mindfulness è diventato un metodo ampiamente riconosciuto nella comunità scientifica ed è stato inserito in molti programmi di intervento, dalle scuole alle organizzazioni sanitarie (come ospedali , cliniche ecc.) fino alle carceri, con lo scopo di affrontare molte delle problematiche legate allo stress, sia fisiche che psicologiche. Attraverso esercizi tipici della meditazione orientale (che non hanno nulla a che vedere con il mistico di carattere religioso o spirituale!) il fine della Mindfulness è di raggiungere un qualche grado di consapevolezza su tutto quel flusso di pensieri e immagini mentali che vivono nella nostra mente e che solitamente sono inconsapevoli e automatici. In particolar modo quei pensieri che sono ‘giudicanti’ (verso noi stessi) e che rimandano a preoccupazioni, aspettative, tentativi di controllo e di rimuginazione, causando quindi malessere. Con la ‘pratica’ della mindfulness il paziente può arrivare ad identificare quegli eventi mentali dolorosi che si innescano automaticamente (e che quindi causano stress) e imparare a prenderne le distanze. Un esercizio tipico è quello sul respiro, per cui focalizzando l’attenzione sul respiro che entra e che esce si arriva alla percezione di questo, cosicché noi diventiamo quello che percepiamo in questo momento, imparando ad accettare ciò che c’è, anche i dolori, senza giudicare ma osservando. In un interessante studio pioneristico, Kabat-Zinn e colleghi (1998) hanno associato  le tecniche meditative della Mindfulness  a trattamenti fototerapici (sia con UVB che con PUVA), ed hanno osservato che i pazienti che praticavano la mindfulness contemporaneamente alla fototerapia mostravano un miglioramento della psoriasi più veloce e incisivo dei pazienti sottoposti alla sola fototerapia (senza midfulness associata).

Per chiudere, va sottolineato che i due trattamenti appena discussi operano su piani molto vicini tra loro, così da essere ormai strettamente legati l’uno con l’altro. Soprattutto il protocollo Mindfulness si è avvalso, nelle sue rivisitazioni più recenti, di alcuni aspetti della TCC. Solitamente il paziente psoriasico che decide di intraprendere un percorso psicologico comincia con la terapia cognitivo-comportamentale per poi affacciarsi al mondo della Mindfulness sempre rimanendo supportato dalla psicoterapia in un interscambio proficuo.

 

Bibliografia

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